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| La scrittrice Elvira Mujcic e il libro La stagione che non c'era (2025) |
di Luca Ferrari
"[...] È finita quando ci costringono con la violenza a dove appartenere all'una o all'altra parte. Non si può più tornare indietro. D'ora in poi saremo uccisi perché stiamo al di là di una linea. Un passo in più. La fine è dover stare al di là di una linea invalicabile [...]". C'era una volta la Jugoslavia... e sicuramente è ancora dentro molte persone. Quel sogno di multiculturalismo potrà anche essere stato sfregiato da uno dei peggiori conflitti del XX secolo (1991-1996), ma ci sono persone che credono ancora che il solo confine esistente non sia quello tracciato dal sangue o da un accordo politico, ma dentro la propria mente. Elvira Mujčić, scrittrice e traduttrice bosniaca naturalizzata italiana, ha dato alle stampe La stagione che non c'era (Guanda Editore, 2025). La vicenda si svolge in una fascia temporale molto ristretta, poco prima dello scoppio delle ostilità. Un tempo dove l'inimmaginabile divenne quotidianità di morte. Un tempo dove la fede in un modello e in un futuro, furono inghiottiti senza possibilità di riappacificazione.
Al centro della vicenda, due giovani. Nene e Merida. Quest'ultima ha una figlia, Eliza. Nene un giorno se n'è andato da casa lasciando una lettera a sua madre. È andato a Sarajevo. Un po' per studiare. Un po' per fare l'artista (disilluso). Un po' per trovare se stesso. Merida è una militante politica. Mentre tutta l'impalcatura Titoista è ormai prossima al collasso, lei ancora ci crede. Ancora crede che il primo ministro Ante Markovic possa salvare la SUA Jugoslavia. Crede ancora che le persone non si faranno abbindolare da slogan secessionisti. Il mondo sta cambiando, è vero. L'Unione Sovietica è collassata. Sì, in tanti si stanno separando ma la possibilità di trovare una via socialista per restare uniti, ci deve pur essere. Lei ci crede, o forse ci spera. Più fede politica che non vana speranza. Nene è più realista o forse, più banalmente, ha capito che non c'è più niente da fare. Una voragine non nasce all'improvviso. Il crollo è solo l'ultimo passo.
E poi c'è lei, Eliza. Lei è la generazione che vedrà le ceneri del mondo dei suoi genitori. Per Eliza, sempre alla ricerca di un padre che l'ha abbandonata prima ancora che nascesse, imparerà che Slovenia, Macedonia, Croazia, Montenegro, Serbia e Bosnia-Erzegovina non sono più regioni di un unico grande Paese, ma singoli Stati confinanti. Eliza è audace e smaliziata. Stringe un legame con Nene, il quale alle volte si fa quasi sopraffare. Ha una casetta sull'albero. Lassù, la Jugoslavia pare immune alla deriva bellica dalla quale sarebbe stata traumatizzata negli anni successivi. Tra le fragilità umane e le piccole battaglie quotidiane, pagina dopo pagina, è un crescendo di angoscia in attesa che scoppi l'irreparabile. La guerra dei Balcani è una delle pagine più nere della storia europea. La Jugoslavia era sempre stata un mondo a parte rispetto al resto dei paesi socialisti. Mai schierata al fianco degli USA, rischiò di essere invasa dall'Unione Sovietica di Stalin.
Giugno 1990. La parola nazionalismo è molto più di qualcosa da sussurrare di nascosto. Allo Stadion Maksimir si gioca l'ultima partita amichevole pre-Mondiale. La Jugoslavia affronta la fortissima Olanda ma succede qualcosa di strano e sinistro. Ci sono quasi esclusivamente bandiere orange. Durante l'inno nazionale della squadra di casa, il pubblico, per la stragrande maggioranza croato, si gira di spalle e fischia. Poche settimane prima, quello stesso stadio aveva vissuto un'anteprima di ciò che sarebbe divampato di lì a poco, uno scontro violento che nulla aveva a che fare con lo sport tra supporter della Dinamo Zagabria (croata) e della Stella Rossa di Belgrado (serba). Tra le fila di quest'ultima, c'è anche un signore che di nome fa Željko Ražnatović; negli anni a venire si metterà alla testa di uno dei più feroci e famigerati gruppi paramilitari serbi, le Tigri di Arkan, macchiandosi dei peggiori crimini. La partite finisce in guerriglia. Per molti, il vero inizio della guerra dei Balcani.
Merida e Nene, due facce (impotenti) della stessa moneta ormai fuori corso. "[...] Stanno tirando fuori scheletri dall'armadio da tutte le parti. Non ce ne rendevamo conto ma poggiavamo i piedi su un terreno che copriva secoli di storia sedimentata male. Ora stanno smuovendo i detriti e chissà cosa salterà fuori " dice lui e metà strada tra saggezza spicciola e una sorta di autocommiserazione. "[...] Sì, ogni giorno esce un articolo, un libro, un'intervista che racconta come i croati hanno ucciso i serbi, come i serbi hanno ucciso i musulmani, come i musulmani sono colpevoli di quello che è accaduto durante l'impero Ottomano. Tutti ripetono che hanno paura. Ti rendi conto? Fino a ieri non si ponevano la questione e oggi all'improvviso hanno paura della moglie, del marito, degli amici o dei vicini", risponde un'esausta e arrabbiata Merida.
Elvira Mujčić ha vissuto a Srebrenica fino al 1992. Poi se n'è andata insieme alla sua famiglia. La piccola cittadina bosniaca è stata teatro di un genocidio di cui l'intera comunità internazionale ha le mani imbevute del sangue di oltre ottomila bosgnacchi (musulmani bosniaci). Anni dopo Elvirà scriverà il libro Al di là del caos (2007). In quest'ultima opera invece, in copertina c'è una donna che ha appena saltato da un precipizio. Alla fine della presentazione mestrina (Ve), un giovanissimo lettore le ha chiesto il significato, paventando (lui) lo scenario peggiore. Elvira però ha dato un'altra interpretazione: "Magari le spunteranno le ali e si salverà" gli ha detto. Magari, e questo lo scrivo io, cadrà in acqua e nuoterà chissà dove. Qualcuno in effetti, durante la guerra dei Balcani, farà proprio così. In molti invece, saranno costretti a restare...
Più di tutti, c'è un passo de La stagione che non c'era a scaraventarci nel terrore più autentico. Quello della porta accanto, improvviso e senza logica. Quando le prime barricate iniziavano ad alzarsi e c'era già chi fuggiva o chi raggiungeva la parte della propria etnia, Elvira Mujčić scrive: "Andare in giro a impegnarsi per la città, significava scontrarsi con sguardi che facevano rabbrividire. Significava depennare dal cuore persone a cui avevi voluto bene. Significava tremare di fronte alla scoperta che per alcuni, amici, colleghi, compagni, eri diventata la nemica, la turca, un ostacolo da rimuovere". Continuando a far parlare Merida, l'autrice slava conclude: "Quel che più la colpiva era lo strano mutamento negli occhi di quegli individui. Una patina nuova ricopriva la retina e faceva apparire lo sguardo freddo, indifferente, assente. L'occhio dava l'impressione di essere strappato dal resto della persona. Separato dal cuore, dallo spirito, dalla memoria. Sradicato dal suo vedere umano, rieducato, addestrato a una cecità predatoria [...]".

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