Una spiaggia famosa dove la presenza umana non è lontanamente paragonabile a certi mercati italiani o simili. Natura selvaggia e mare trasparente. Una sabbia meno rosea di un tempo (qualche mano di troppo se n'è portata via), il fascino però è ancora intramontabile. L'effetto cromatico pure. Viaggio sulla spiaggia di Elafonisi, sulla costa sud-occidentale dell'isola di Creta, in Grecia.
Un volo notturno dall'aeroporto di Treviso e poco dopo mezzanotte sono atterrato a Chania (La Canea). L'autobus attende i passeggeri, poi si parte. Sbarcato in centro città, una romantica passeggiata notturna mi da il benvenuto in terra greca. L'indomani, tra un gustoso souvlaki e una fresca insalata cretese, sistemo la pratica per il noleggio auto, e la mia prima destinazione è la celeberrima spiaggia di Elafonisi.
Una strada a zigzag tra uliveti e cedri, quindi l'arrivo. Ampia la possibilità di parcheggio. Giusto un paio di locali dove pranzare (pietanze molto semplice), il resto è solo natura a perdita d'occhio. Caratteristica principale, il fatto di dover camminare nell'acqua per raggiungere un secondo avamposto terreno fatto di sabbia, vegetazione e scogli.
Un po' Croazia. Un po' i Tropici. O più semplicemente, Creta. Il sole scalda ma l'umidità non abita qui. Difficile restare sdraiati senza farsi trascinare dalla voglia di scoperta. Pare una laguna tropicale. Si cammina nell'acqua tra un'insenatura e l'altra. Si gioca nei riflessi. Lo spazio è aperto. L'essere umano si placa.
Nell'infinito scontro tra Greci e Turchi, la leggenda narra che la colorazione rosata della sabbia provenga da sangue umano di centinaia di vecchi e bambini, uccisi dagli Ottomani il 5 maggio 1824. Solo le donne vennero risparmiate per essere vendute come schiave.
La luce si dirada. Piccole onde sovrastano la calma piatta. Quasi tutti i bagnanti si sono già rifugiati nelle pochissime e limitrofe strutture ricettive. Gradazioni di rosso-aranciato prendoni il sopravvento sull'azzurro. Sempre più scuri. Il vento mette quasi freddolino. Non me ne andrò subito via. Questa notte resterò sulla spiaggia di Elafonissi.
Nella Giornata Mondiale del Rifugiato l'UNHCR ha comunicato che per la prima volta dalla II Guerra Mondiale, sono oltre 50 milioni le persone in fuga nel mondo.
Lo sguardo di un bambino perso nel vuoto. Un foglio scarabocchiato su di un modulo. La biancheria secca stesa in un campo profughi. Il corpo stremato di milioni di creature. Intere esistenze in fuga, alla ricerca di una nuova casa. Oggi più che mai, 20 giugno 2014, nella Giornata Mondiale del Rifugiato, c'è bisogno di una nuova coscienza collettiva per mettere l'Essere Umano al centro dell'agenda della Comunità Internazionale.
Xenofobia in aumento. Partiti politici di stampo razzista in aumento. Emarginazione, violenze e guerre di costante attualità. Secondo un rapporto pubblicato oggi dall'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) per la prima volta dalla fine della Seconda Guerra Mondiale il numero di rifugiati, richiedenti asilo e sfollati interni in tutto il mondo ha superato il livello di 50 milioni di persone.
Il rapporto annuale dell'UNHCR Global Trends, che si basa su dati raccolti da governi, organizzazioni non governative partner dell’Agenzia e dallo stesso Alto Commissariato, rivela che alla fine del 2013 si contavano 51,2 milioni di migranti forzati, ben sei milioni in più rispetto ai 45,2 milioni del 2012.
Questo massiccio incremento è principalmente dovuto alla guerra in Siria che alla fine dello scorso anno aveva già costretto 2,5 milioni di persone a diventare rifugiati e altri 6,5 milioni sfollati interni. Anche in Africa si è assistito a nuovi casi gravi di esodo forzato, in particolare nella Repubblica Centrafricana e, verso la fine del 2013, anche in Sud Sudan.
“Siamo testimoni dei costi immensi che derivano da guerre interminabili, dal fatto di non riuscire a risolvere o prevenire i conflitti", ha dichiarato l'Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati, António Guterres, “la pace è oggi pericolosamente difficile da raggiungere. Il personale umanitario può costituire un palliativo, ma le soluzioni politiche sono di vitale importanza. Senza di queste, i livelli preoccupanti raggiunti dai conflitti e le sofferenze di massa, che si riflettono in queste cifre, sono destinati a continuare".
Complessivamente gli afgani, i siriani e i somali, che insieme rappresentano oltre la metà del totale dei rifugiati a livello mondiale, costituiscono le nazionalità maggiormente rappresentate tra le persone di cui l'UNHCR si prende cura. Intanto paesi come il Pakistan, l’Iran e il Libano hanno ospitato un maggior numero di rifugiati rispetto ad altri Stati. Se si guarda alle diverse regioni, l'Asia e il Pacifico hanno ospitato il maggior numero di rifugiati, complessivamente 3,5 milioni di persone. L’Africa sub-sahariana ha accolto 2,9 milioni di persone, mentre il Medio Oriente e il Nord Africa hanno visto arrivare sui loro territori 2,6 milioni di migranti forzati.
Oltre ai rifugiati, il 2013 ha visto 1,1 milioni di persone presentare domanda di asilo, la maggior parte dei quali nei paesi sviluppati (nel 2013 la Germania è diventato il paese con il più elevato numero di nuove domande di asilo). Un numero record di 25.300 domande di asilo sono state presentate da minori (bambini che sono stati separati dai genitori o minori stranieri non accompagnati).
“La comunità internazionale deve superare le proprie divergenze e
trovare soluzioni ai conflitti che colpiscono oggi il Sud Sudan, la
Siria, la Repubblica Centrafricana e altri paesi” ha poi aggiunto
Guterres, “È necessario che donatori non tradizionali si affianchino con
maggiore impegno ai donatori di lungo corso. Questo perché oggi il
numero di persone costrette alla fuga equivale alla popolazione di
interi paesi di medie e grandi dimensioni, come la Colombia o la Spagna,
il Sud Africa o la Corea del Sud”.
Il totale di 51,2 milioni di migranti forzati a livello mondiale costituisce un enorme numero di persone bisognose di aiuto con implicazioni che si ripercuotono sia sull’entità degli aiuti internazionali dei paesi donatori, sia sulle possibilità di assorbimento e la capacità di accoglienza dei paesi più prossimi alle aree di crisi dei rifugiati.
"Vorrei raccontarvi una storia, una delle più tragiche dei nostri tempi", inizia così il messaggio della cantautrice romana Giorgia, testimonial UNHCR per la Giornata Mondiale del Rifugiato 2014 "Di milioni di famiglie costretta a fuggire. Troppo spesso è una storia di orrore, paura e perdita..."
Il messaggio della cantante Giorgia per la Giornata Mondiale del Rifugiato
Dopo l’ennesimo campionato di Serie A scandito da polemiche, violenza, scorrettezze e razzismo, di tifare per la Nazionale italiana mi è passata la voglia.
Cori razzisti, ridimensionati. Violenza dentro e fuori gli stadi, sottovalutata. Si è disputato in Italia un altro patetico campionato di calcio con la ciliegina sulla torta la celebre performance di Genny a Carogna nella finale di Coppa Italia. Un copione noioso, volgare e tragicamente già visto. Le istituzioni però hanno ancora il coraggio di chiamarli - fatti isolati-. Ogni anno, ogni partita e ogni giornata, fatti isolati. Dopo tutto questo, Mondiali o non Mondiali, di tifare per il calcio italiano mi è proprio passata la voglia.
Giusto qualche scampolo di memoria del trionfo '82 con il dolce sapore del succo d'arancia Billy per brindare all'epico 3-2 dell'Italia sui Brasile, poi il Messico '86 con un baro trasformato in eroe (divino addirittura) e le notti (quasi) magiche infrante ai calci di rigore quattro anni dopo. Tocca poi a quell'anomalo Roberto Baggio far sognare il popolo Azzurro, per poi infilare una sequenza di edizioni poco più che mediocri in Francia, Giappone/Corea e Sudafrica, con in mezzo il trionfo tedesco nel 2006.
Brasile, 20° edizione dei Campionati Mondiali di calcio. Sabato 14 giugno 2014. All'Arena da Amazônia la Nazionaleitaliana affronta l’Inghilterra nella sua prima partita del Gruppo D. Gli Azzurri s'impongono con merito 2-1. Sarà stata l’ora tarda, sarà stata la stima per il calcio d’Oltremanica, sarà stata qualsiasi altra cosa ma una volta sentito il triplice fischio del direttore di gara, ho solo provato una gran voglia di dormire e nessun sentimento di gioia.
Festeggiare cosa? La Nazionale ha lo strano merito di unire una nazione per 90 minuti, salvo poi ritrovarsi ad augurare che un vulcano cancelli intere regioni, sbeffeggiare tragedie aeree ed ex-calciatori non più vivi, ricordando pure con disprezzo i morti negli stadi. Il razzismo poi, quello neanche viene considerato. Tutto questo ogni maledetta domenica di calcio italiano.
Milano, 7° giornata di ritorno dell’89° campionato di Serie A. Domenica 10 marzo 1991. Allo stadio San Siro si sfidano Inter e Juventus. Dal basso dei miei acerbi quindici anni assisto scioccato a cori degni del Ku Klux Klan. Ogni volta che il difensore brasiliano Julio Cesar (bianconero) tocca il pallone, tutti i tifosi interisti a urlare – uh uh uh uh – con tanto di gesto da scimmia. Qualcosa che tragicamente ricorda le recenti e indecorose esternazioni leghiste del vicepresidente del Senato, Roberto Calderoli all’allora Ministro dell’Integrazione (oggi euro-parlamentare), Cecile Kyenge.
Da allora sono passati 23 stagioni. Da allora si è continuato imperterriti. Da allora i cori offensivi ai giocatori di colore non sono mai cessati. E le istituzioni sempre a minimizzare. A stigmatizzare una piaga. E le istituzioni, così come molti giocatori, a ribadire che tanto c’è sempre stato e che è una prerogativa di pochi. Perfino a criticare l’attuale ct (italiano) della Russia, Fabio Capello, quando anni fa disse a chiare lettere che l’Italia calcistica è in mano agli ultras. E questi “tifosi” sono talmente pochi che ogni domenica in tutti gli stadi si fanno sempre sentire.
A tutto ciò va aggiunto un senso di anti-sportività devastante. In campo si vedono scene da attori che neanche il tre volte premio Oscar Daniel Day-Lewis saprebbe riproporre sul grande schermo con siffatta convinzione e intensità. Ma il calcio è un gioco maschio, piace ripetere. Quindi per logica devo dedurre che “uomo” è sinonimo di scorretto e razzista? Ogni sconfitta viene sempre giustificata con alibi, prima durante e dopo. Sublimazione di questo demenziale girone umano, l'arbitro. Capro espiatorio di una cultura (italiana) tragicamente provinciale.
In occasione della suddetta partita mondiale contro l'Inghilterra, già si gridava allo scandalo per le pessime condizioni del terreno di gioco e il clima. Cosa dovrebbero dire allora i tennisti quando "si prendono a pallate" per ore in Australia, d'estate, ogni giorno, sotto un sole incandescente e per di più da soli, correndo 10 volte quanto un calciatore? Niente. Fanno il loro dovere e basta perché sono, evidentemente, professionisti più seri e meno viziati.
Potrai anche non fartene nulla del mio tifo calcistico, Italia, ma sappi che lo hai perduto. Il mondo del calcio italiano è nauseante e ormai non mi basta più il viso pulito e speranzoso del commissario tecnico della Nazionale italiana Cesare Prandelli cui va tutta la mia più sincera stima. No, semplicemente, basta. Semplicemente vorrei vedere qualcosa di diverso. Vorrei un cambiamento. Almeno dalla mia casa, l'Italia.
La danza orientale per l'Umanità. Venerdì 20 giugno, in occasione della Giornata Mondiale del Rifugiato, è di scena Belly Charity: Dance for the Refugees.
Anime in fermento. Stimoli universalmente culturali. Parti coreografici. L’arte si fonde con le contaminazioni dell’esperienza quotidiana. Una nuova energia sempre diversa irrompe nella mutevole esistenza umana. È appena cominciata una nuova performance di danza orientale. Danza orientale nel nome degli Esseri Umani. Danze orientali per tutte quelle migliaia di vite in fuga da violenze, abusi e guerre. Danze orientali per accogliere persone in difficoltà regalando loro quel sentimento di unione e fratellanza in una nuova casa.
Istituita dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR), il 20 giugno si celebra la Giornata Mondiale del Rifugiato.
“Credo che la danza orientale sia potenzialmente in grado di favorire un processo di unione tra i popoli nel momento in cui accoglie in sé elementi di altre culture. Non può però farlo da sola” sottolinea Virginia Danese, mediatrice culturale con gli immigrati e rifugiati politici nonché membro del gruppo milanese Tribal Troubles che si esibirà in occasione della Giornata del Rifugiato 2014, “È necessario che la danzatrice abbia una certa apertura mentale che la spinga ad approfondire altre danze e culture. Una volta accolti i loro elementi nella danza orientale, sarà più semplice favorire la diffusione e la conoscenza di una cultura condivisa capace di eliminare tutti i confini”.
Venerdì 20 giugno dunque, a partire dalle 21.30 presso il Teatro Edi Barrio's di Milano (via Boffalora ang. via Barona), è di scena Belly Charity: Dance for the Refugees. Nel corso della serata si esibiranno le Tribal Troubles, Virginia Danese, Valeria Huraiva, Nicole Curti, Nausicaa Jennifer Tudisca, Jamila Zaki, Valeria Guatta e le Monedas al Agua, Dark 'n White, Industrial Tribe, Gruppo Percussioni Zagharid, Gaia Dunya Rai, Sabrina Sartori, Gruppo di Danza Classica Persiana, Percussioni Afro con Associazione Karamogo, Danza Afro con Afro Girls, Danza Indiana Bharata Natyam con le allieve di Daria Mascotto, infine le allieve delle già citate TT Virginia e Valeria.
Con un biglietto d’ingresso di 5 euro, l'intero ricavato sarà devoluto all'Associazione Casa di Betania Onlus che gestisce da 26 anni un centro di accoglienza per rifugiati politici e richiedenti asilo. Attualmente la struttura ospita 20 persone provenienti per la maggior parte dall’Africa Sub Sahariana, Costa d'Avorio e ultimamente molti dal Mali, oltre a qualche afghano e pakistano.
Sebbene ancora troppo vista come danza di seduzione, anno dopo anno la danza orientale avanza sempre più spedita nella cultura italiana decisa a imporsi per il significato con cui realmente è nata e viene sempre più praticata. Artefici di questa affermazione ovviamente loro, le danzatrici e insegnanti.
“Ho avuto la fortuna di studiare con la grande maestra Jamila Zaki che mi ha trasmesso il rispetto per questa danza, senza limitarsi alla sola tecnica ma approfondendo le sue origini culturali, le tradizioni di folklore in cui s’inserisce, la musica e i ritmi che la accompagnano” continua Virginia, “Mi ha insegnato a insegnarla in questo modo, senza farla diventare mai competitiva ma rendendola il mezzo con cui ogni donna riesce a sentirsi Donna nel proprio corpo, imparando a conoscerlo e accettarlo con le imperfezioni che tutte abbiamo”.
Formatesi nell'inverno 2011, le Tribal Troubles sono già alla seconda esibizione nella Giornata Mondiale del Rifugiato. Nel percorso umano di ciascuna delle quattro protagoniste, prima ancora di quello artistico, si trovano singole esperienze nel sociale. Una sensibilità dunque di base poi sviluppata ulteriormente con la danza orientale e messa a disposizione di una causa umanitaria.
“Per noi è molto importante iniziare a sensibilizzare i giovani sui temi del volontariato sociale e, in questo caso specifico, sull’asilo politico” conclude Virginia, “Iniziative come Belly Charity sono da incoraggiare e incentivare. In questo modo si riuscirà anche a dare un contributo importante per una nuova visione della danza orientale. L’asilo politico è un tema ancora troppo sconosciuto e la maggior parte ignora la differenza tra un immigrato cosiddetto economico, che per scelta ha deciso di emigrare, e un rifugiato politico, che è stato costretto a farlo a causa di persecuzioni per i motivi più svariati, non solo necessariamente politici, ma religiosi, di genere, di pensiero”.
Tribal Troubles live nella Giornata del Rifugiato 2013
Città, centri rurali. Aeroporti. Treni. Bus. Metropolitana. Battelli. Romantici vinili e cinema multisala. Dall'imponente Tamigi al più cordiale Dee, nel Cheshire. Dall'hot-dog tardo estivo di Hyde Park alla calda atmosfera uggiosa-invernale di Liverpool. Dal verde tennistico di Southfields a quello più selvaggio del Lake District. Cara dolce Inghilterra, ho tanto da raccontare su di te e molto ancora da scoprire. Si va in scena!
Un prossimo volo andata e ritorno Monarch/Ryanair per Londra e da Manchester e per la 10° volta attraverserò la Manica, rendendo così la terra di Sua Maestà la meta straniera più battuta della mia esistenza. Sarà il clima mai troppo caldo. Sarà il feeling musicale con i vari John Lennon, Iron Maiden, Clash, Sex Pistols, Radiohead (e anche le Spice Girls... lo so, ognuno ha i suoi lati incomprensibili, questo è il mio). Sarà questo e chissà cos'altro ancora, sta di fatto che io in Inghilterra, specie quella più agreste, ci sto bene. Proprio bene.
La mia prima volta in terra d'Albione fu nel lontano settembre 1997. Partito da Venezia subito dopo aver assistito alla Mostra del Cinema alla proiezione di Year of the Horse, il documentario di Jim Jarmusch sul rocker canadese Neil Young, quando dal mio oblò aereo vidi sia la costa francese sia quella inglese, nel walkman si alternavano il punk melodico degli Offspring e lo ska-rock targato No Doubt con la bella Gwen Stefani alla voce. Poi fu un tripudio di "sporca" scuola inglese anni Settanta.
Sbarcato a Heatrow trascorsi una decina di giorni a Londra, vissuti in particolare tra le colline di Golders Green, i club rock di Camden Town, qualche incursione a Piccadilly Circus e il verde di Wimbledon. Una dimensione troppo convulsiva per un carattere più in confidenza con centri a misura d'uomo. Comunque sia, meno di un anno dopo (agosto '98) ero già pronto per il bis londinese con tanto di permesso di espatrio firmato durante il Servizio Civile, ma la salute mi fece un brutto scherzo il giorno prima di partire e tanti saluti.
Passano quattro anni e nel marzo 2002, con già il trasferimento di vita a Firenze in pole position, faccio il mio ritorno in Inghilterra. Ancora a Londra, e questa volta ci sono delle amichevoli ragioni nuziali a farmi salire sull'aereo (la prima volta con le low cost). Passa poco più di un anno e nell'estate del caldo record (2003) mi ritrovo a gironzolare sotto la casa natale di Charlie Chaplin in sandali.
La vita prende strane strade e non troppo belle. L'Inghilterra viene messa in naftalina. Dopo un periodo di fiacca però riprendo a volare. Comincio dall'India per il mio primo reportage internazionale. Si susseguono altre esperienza analoghe di lavoro in Europa ma l'Inghilterra non rientra nel mio radar. Mi ci vogliono sette anni per tornarvi. È il giugno 2010 infatti quando sbarco per la prima volta al John Lennon Airport di Liverpool, destinazione Chester.
Il tempo di capire dove mi trovi e complice il tanto stress accumulato sommato a una sudata di troppo sui campi da tennis gratuiti del capoluogo del Cheshire e sballo di brutto, ritrovandomi con brividi e quasi 39 di febbre. Addio biglietto di ritorno economico e new ticket due giorni dopo con notevole dispendio fisico e monetario. Lo ammetto, lì per lì Chester mi dice poco.
Il lavoro però mi ci fa tornare in autunno e l'atterraggio è ancora a Liverpool. Una sosta proprio a Chester, e poi via verso il Galles. Forse la curiosità. Forse un'intuizione. L'inizio del 2011 è una rivoluzione. Decido di passare un mese a migliorare la lingua e la città prescelta è proprio lei, Chester. Parto con Easyjet e atterro a Londra Gatwick in compagnia fraterna. Resto una notte e poi mi dileguo nel nordovest inglese by train.
Il capoluogo del Cheshire sale in cattedra. Incontro e stringo amicizia con persone da tutto il mondo (Colombia, Brasile, Italia, Francia, Corea del Sud, Svizzera, Cina). Insieme a loro riesco anche a fare un bellissima escursione tra la natura del Lake District attraversando il Windermare Lake, i piccoli e caratteristici centri di Ambleside e Grasmere, fino a salire in cima un'altura della vallata del Great Langdale.
Scopro e pratico lo squash. Vivo la vita quotidiana. Come il morso di ragno muta Peter Parker in Spider-Man, così l'esperienza multiculturale di Chester mi entra dentro a tal punto che una volta rientrato in Italia, sento da subito la necessità (fisica e mentale) di ritornarci. E lo farò altre due volte nel 2011. In giugno e dicembre. Qualcuno d'altronde "continua" a chiamarmi" fratello insistendo a dire che la sua mensa è la mia mensa! Senza farmelo ripetere ne approfitto allegramente, così d'estate atterro per la prima volta a a Manchester (Monarch Airlines) mentre d'inverno faccio scalo ad Amsterdam all'andata e al ritorno (KLM).
Dopo una simile indigestione ci vuole una pausa, ma è sempre la lingua anglofona a tracciare il sentiero. Nel 2012 la Manica l'attraverso ancora, solo che invece di atterrare a est, il mio volo ripartito da Parigi punta all'estremo ovest nordamericano per coronare il sogno di una vita intera, Seattle. Ma quando dal mio posto vedo sul quadrante dell'aereo la penisola britannica sotto di me, tra un film e qualche scritto, la mia mano fa un sereno saluto indirizzato alla piccola Chester.
Anno 2013. Il primo viaggio in alta quota dell'anno è qui. Un momento e Manchester è già che ad accogliermi. Da Londra si riparte. Lì nel mezzo, sempre lei. Chester. Il suo supermercato Tesco. I suoi pub. La sua quiete. Il suo essere a due passi dal rilassante verde gallese. La gente del posto sempre molto cordiale anche con chi non è tipically British. Un posto dove alle 4 del mattino ti "potrebbe" anche capitare d'incrociare uno sconosciuto che vedendoti salire sul ponte della stazione col trolley, si potrebbe fermare, aspettare che tu sia passato e salutarti così – good morning, sir –. Esattamente.
Scheletri e teschi ammassati. Strade devastate. Brandelli di un'umanità sgozzata nei suoi diritti più basilari. Dalla giungla un padre tiene in braccio il proprio figlioletto, avamposto di un'esistenza sopravvissuta alla mattanza più assassina. Il ritratto dello spietato dittatore Pol Pot con un X disegnata sopra. Testimonianze. Documenti. Venezia presenta la mostra “In Cambogia. Fotografie dall’Archivio Tiziano Terzani” (9 maggio – 2 giugno), a cura di Angela Staude Terzani.
L’Istituto Interculturale di Studi Musicali Comparati della Fondazione Giorgio Cini di Venezia dedica alla Cambogia la manifestazione di maggior prestigio della sua programmazione per l'anno 2014 proponendo un variegato percorso culturale attraverso la fotografia, l'impegno umanitario, la storia e la musica della piccola nazione asiatica.
Venerdì 9 e sabato 10 maggio infatti, l’isola di San Giorgio Maggiore ospita la giornata di studi Ricostruire la Cambogia dopo i Khmer Rossi. L’esperienza di vita e di lavoro di Onesta Carpenè (1935-2007), per ricordare la figura della suddetta cooperante veneta impegnata nel Sud-est asiatico per quasi trent’anni.
Originaria di Col San Martino (Tv), a partire al 1966 lavorò nel mondo della cooperazione internazionale tra Vietnam, Laos e Thailandia e una volta caduto il regno dei Khmer Rossi, si spostò in Cambogia dove vi rimase dal 1980 al 2005. L’esperienza di vita e lavoro di questa indomita donna sarà dunque presentata in parallelo alla mostra fotografica In Cambogia. Fotografie dall'Archivio Tiziano Terzani e in chiusura della due giorni, lo spettacolo serale Luci e ombre del Balletto Reale cambogiano al Teatro Malibran.
Tiziano Terzani e la Cambogia. Ventisei stampe fotografiche originali, una ventina di riproduzioni da negativi, provini autentici e alcuni documenti tra dattiloscritti ed estratti stampa dell’epoca. Frammenti istantanei dell'orrore perpetrato da Pol Pot e mai troppo raccontato come i "colleghi" nazisti o sovietici.
Distruzione e ricostruzione. Oppressione e ribellione. Sangue e innocenza. Nel 1979 il Vietnam invade la Cambogia. Le maglie inossidabili della dittatura polpottiana si allentano e Terzani, inviato del settimanale tedesco Der Spiegel, nel 1980 riesce a varcare il confine. Ha inizio il tour nell'orrore. Quello che vede, narra e fotografa è indescrivibile. Ne nascerà il reportage pubblicato “Sento ancora le urla nella notte”.
Tiziano si mette in cammino. Terzani racconta. Tiziano annota. Terzani è sul campo. Di fronte a certe immagini c'è poco da riflettere. Ancora una volta l'umanità incolla il proprio coltello sull'acceleratore vomitando odio e morte su qualsiasi specchietto del presente. Ci restano gli agghiaccianti numeri del genocidio cambogiano. Ci resta la memoria. Ci restano le fotografie di Tiziano Terzani.
La Croazia dei laghi e delle cascate. Dei ruscelli. Delle gradazioni di verde. Del suono dell’acqua che rimbalza sulla roccia e s’intinge armoniosa sulla soffice vegetazione, e che, come un saggio Virgilio, mi accompagna in questo viaggio nel Parco nazionale dei laghi di Plitvice, svelandomi i segreti di un nuovo mondo naturale.
Salutata la graziosa cittadina di Ravanjska e la sua costa dove il fare la colazione davanti al mare è quanto di più piacevole si possa immaginare per iniziare una giornata, punto il mio radar cartaceo verso nord, prendendo l’autostrada fino a Gornja Ploca e quindi immettendomi nella statale che mi porterà diritto al Parco Nazionale dei Laghi di Plitvice (Plitvicka jezera).
Girare per le strade croate è uno spettacolo. Aldilà dell’indubbia bellezza naturalistica, le strade sono punteggiate da venditori (quasi sempre donne) con minuscoli e grandi banchetti dove si vende frutta, verdura e il molto apprezzato formaggio locale. In taluni, fanno la loro comparsa anche distillati e miele.
È consigliabile fare il tragitto a stomaco pieno. Se si viaggia coi finestrini abbassati infatti, sarà impossibile evitare che la succulenta aroma del maialino di latte arrostito all’aperto dei vari ristoranti entri nelle narici e così obbligarvi a scendere e saggiare questa squisite specialità.
Le indicazioni sono perfette e tempo un paio d'ore scarse sono già dentro il teatro naturale dell’immenso parco naturale di Plitvice, Patrimonio Mondiale dell’Umanità tutelato dall’Unesco. Situato fra la regione della Lika e Segna, e quella di Karlovac, nel cuore della Croazia, nel complesso montuoso di Lička Plješivica, inizia lo spettacolo di un gigantesco mondo acquatico-vegetale di 296 chilometri quadrati.
C’è una scelta di sentieri che vanno dalle due-tre ore di camminata alle sei-otto. Una sorta di trenino su ruote mi accompagna al punto di partenza. Ha inizio l’avventura. Scelgo il sentiero dei laghi e delle cascate. Peccato che un cartello indichi che non ci si possa tuffare. Gli spruzzi d’acqua che arrivano dalle colate acquee mi fanno pensare a un tentativo di seduzione (ben riuscito) di Madre Natura.
Passano pochi minuti e subito m’imbatto in soffici anatre che felici sguazzano a ridosso di piccoli e grandi laghi (scavati nella dolomia, una pietra che noi italiani conosciamo molto bene poiché formano le montagne Dolomiti), muovendo le ali. Starnazzando, e in attesa che qualche umano gli dia la merenda.
Il mondo floreale è davvero ampio. Conifere, larici, faggi, olmi, abeti. E lì nel mezzo, un cosmo pulsante animale (cervi, lupi, orsi) e vegetale. Ci sono anche gli abitanti più piccoli come le farfalle (di cui si contano sedici specie), cicale canterine e libellule. Una di loro per niente intimorita dai giganti bipedi, si poggia delicatamente su una foglia a pochi passi da me. Giusto il tempo per immortalarla e ringraziarla con un inchino.
Nell’ampio giro c’è anche immenso Lago Kozjak (lungo 2350 metri), attraversabile anche in battello, i Burgeti (tre piccoli laghi separati da barriere di Travertino), i laghi superiori (gornja jezera) e quelli inferiori (donja jezera). Un’immensa e larga arteria acquea, habitat per pesci, anfibi e uccelli.
Lo ammetto. Per me il piatto forte sono loro. Le cascate. Come tuoni dal fresco frastuono, m’impossesso di tutta la loro azzurra potenza. Metto la testa sotto i loro flutti volanti. Mi bagno . Arrivo al Lago Galovac, il cui sentiero conduce alle cascate provenienti dai tre laghi superiori Malo, Vir e Batinovac.
Il giro sembra non finire mai. Che sia un mondo senza uscita? Credo di desiderarlo. E invece arrivo a un piccolo approdo dove un battello mi porterà dalla parte opposta del Kozjac. Lì nel mezzo,un’isoletta che saluto in attesa di farci ritorno e magari questa volta noleggiare una barca a remi e scoprire da una nuova prospettiva lo sconfinato mondo dei Laghi di Plitvice.