venerdì 30 novembre 2012

Povlja, tutti i fichi della Croazia che vuoi

Povlja (Croazia), scogliera © Luca Ferrari
Piccolo isolotto dell'Adriatico croato. In ogni giorno vissuto a Povlja c'è una sconfinata voglia di dolcezza e rintocchi d'Hemingway.

di Luca Ferrari

Prendo carta e penna...  "gli altoparlanti girati dalla parte opposta/… le piante sporgenti con le case affacciate sui nostri palmi risvegliati nella quiete di un promontorio imbevuto dei tuffi più delicatamente bendati... dammi i tuoi spigoli per farmi sedere e ricordarmi di tutti quei sassi che non sono mai riemersi dal fondo del mare

Cari magazzini dei mondi, vi vedo ancora laggiù ma questo non era comunque previsto...

ho sempre giocato con le pozzanghere d’acqua direttamente in mare aperto, questo ti dovrebbe suggerire in che modo abbia voglia di forzare serrature senza porte d'accesso... ci sono strade Doorsiane che avrei potuto farti conoscere prima/... ci sono ipotesi che non ho mai voluto intersecare con nuvole non abbastanza lontane…sul ciglio dei miei dardi c'è posto anche per te

ti presto le mie braccia per raccoglierne ancora, tu hai già fatto tutto il resto/... ti aspetto nel medesimo posto dove sei esattamente tu… sarebbe come dire che oggi sono insieme a te… è esattamente quello che voglio… è esattamente quello che dico…"

Povlja (Croazia), pianta di fichi © Luca Ferrari
Povlja (Croazia) © Luca Ferrari
Povlja (Croazia) © Luca Ferrari
Povlja (Croazia), il centro abitato nella piccola baia © Luca Ferrari

giovedì 29 novembre 2012

La Cattedrale di Chester

Chester, la Cattedrale della Vergine Maria Purificata © Luca Ferrari
Viaggio nell'arte sacra del gotico d'Inghilterra. Nel nordovest, a Chester. Dentro e fuori le guglie della Cattedrale della Vergine Maria Purificata.

di Luca Ferrari

C’è aria di scirocco nella quiete di Chester. Il sole è sgombro di nuvole e il clima si fa sempre più mite. Non faccio a tempo a scendere dal ponte sopra la stazione che le guglie gotiche della Cattedrale della Vergine Maria Purificata iniziano già a mostrarsi nel vicino orizzonte. Non devo fare altro che camminare. Non devo fare altro che proseguire fin nel cuore della placida cittadina della contea del Cheshire.

Rimandata a un altro giorno la visita al Blue Planet Aquarium, una simile luce merita di essere valorizzata in questa delicata mattinata anglosassone. Così, superato un primo canale del fiume Dee, prendo Grosvenor Street e l’imponente edificio religioso mi si staglia in tutta la sua magnificenza sulla destra. 

Ma invece di seguire la strada e trovarmi di fronte il Duomo, devio per un sentiero alberato sulla destra, carezzando parte delle antiche mura della città e costeggiando l'imponente edificio religioso mentre il sole accende sempre di più il rosso dell’arenaria con cui è stato realizzato l’esterno, per altro come le cattedrali di Carlisle, Lichfield e Worcester. 

Sarà l’atmosfera sorridente e cordiale dei cittadini di Chester, ma questo non è un gotico che incute soggezione. E i tanti scoiattoli che vanno su e giù nei tanti alberi attorno, sembrano confermare un clima diverso. Il sofficeverde del giardino, dove un tempo si coltivavano piante aromatiche, si amalgama alla perfezione con il resto della vita.

Come successe per altre chiese, la Cattedrale crebbe sul luogo in cui un tempo sorgeva un’antica chiesa sassone risalente al X secolo, dedicata alla badessa Werburgh (650-699), patrona di Chester. Su questo sito, elevato nel 1092 allo stato di Abbazia Benedettina, venne dunque edificata un nuovo edificio religioso in stile normanno, gotico inglese e romanico.

L’intera costruzione durò circa 250 anni. Riuscì a sopravvivere alla politica del re Enrico VIII Tudor (1491 - 1547) sulla distruzione e spoliazione degli edifici religiosi. Seppur chiusa, nel 1541 la chiesa divenne la Cattedrale della neonata diocesi della contea di Chester. E guai a sbagliare il sostantivo. Chester è town, e non city. Pur significando entrambe città infatti, il primo termine si dà a quei centri che hanno la cattedrale, il secondo per le normali chiese.

All’interno della Cattedrale, sono molti gli elementi artistici di cui andrebbe raccontata storia e aneddoti. Molto particolare è la Lady Chapel (1250-1275), dove si trova il Sacrario di San Werburga, risalente al 1340. Il successivo restauro del XIX secolo ha ridato ai colori delle pareti e del soffitto che conferivano una certa vivacità all’area.

La semi-oscurità aiuta la concentrazione. Resto lì, con la testa ripiegata all’indietro a guardare volte e vetrate. Ripercorrendo la storia delle Cattedrale passo per il Medioevo dove i monaci benedettini di Chester si distinsero per la loro semplicità di vita. Preghiera, studio e lavoro secondo la regola monastica dell’obbedienza del rispetto, tradizione e l'apertura verso il futuro. Continuità e cambiamento. Una gran lezione.

Chester © Luca Ferrari
Chester, canale del fiume Dee © Luca Ferrari
La Cattedrale di Chester © Luca Ferrari
Passegiando verso la Cattedrale di Chester © Luca Ferrari
La Cattedrale di Chester © Luca Ferrari
La Cattedrale di Chester © Luca Ferrari
La Cattedrale di Chester © Luca Ferrari
La Cattedrale di Chester © Luca Ferrari
La Cattedrale di Chester © Luca Ferrari
La Cattedrale di Chester © Luca Ferrari

venerdì 23 novembre 2012

Gemma, la danza del respiro

La danzatrice spagnola Gemma Marti
“Il respiro è come una fata. È un tesoro con cui possiamo abbellire la nostra danza e connetterci con il pubblico e con noi stessi”, Gemma Marti.

di Luca Ferrari

Una leggenda si tramanda. Una storia passa da un palmo a un sottofondo di pura realistica immaginazione. Ma è tutto in più parole. Una giovane donna racconta. Leggo da lei. Scruto la scenografia che insisto possa esistere. Un deserto lontano si sforza di essere cullato dall’aria oceanica. Si è come storditi. Lei mi ha offerto i colori e un dipinto già espressivo. Io ho provato a fare il resto.

“Lo spettacolo è stato di suprema eleganza. Essenze floreali permeavano il suo libero arbitrio. Fascino insolito" prosegue nel viaggio la danzatrice spagnola Gemma Marti, "Le luci si abbassarono e il pubblico mormorio cessò in una frazione di secondo. Non si respirava. Torsi sporgevano dai sedili in posizione verticale e dritti con un sospiro completamente fermo in una magia istantanea. Attesa per l’apparizione degli artisti sul palco. 

Quando la musica ha iniziato le spalle si sono rilassate. Il sorriso ha oltrepassato la frontiera delle proprie labbra. La tensione è sgusciata in tutto il suo fiato. Tutto è apparentemente tornato alla normalità. Dopo pochi minuti la musica accelerò il ritmo, e così pure il battito del pubblico. Il segno di un ballerino darbuka ha lasciato nello show grande energia. I loro corpi perfettamente posizionati nella saggia aria stilizzata per fornire al pubblico l’emozione.

Sussulti di sorpresa quando improvvisamente apparve la bella danza, e il respiro è stato scandito dalla stessa velocità dei movimenti degli artisti. La musica è diventata misteriosa. Sensuale. Avvolgente e lenta. Molto lenta. È stato il momento del battito del pubblico. Movimenti sinuosi e capelli luminosi. Qualche mano arruffata sul cuore glorioso sta ancora trattenendo il soffio di un momento emozionante”

“La danza orientale non è facile. Quando l'insegnante inizia a dire – bacino integrato, spalle rilassate ma in posizione verticale del tronco, glutei, spremitura, sorriso, e ora fate il passo -  Ecco boom, c'è sempre qualcuno rosso in volto, e a quel punto ti dice, "ragazze rilassatevi, ricordatevi di respirare”. La concentrazione è intensa.

Forse a questo punto delle mie intuizioni oniriche, posso anche provare a intingere dagli specchi di un fiume di passaggio. Avvicinando ciò che sento a quanto udito. Il suggerimento che mi sono appena permesso di dare è stato subito trasformato in un'ulteriore cantilena di soli movimenti.

Gemma, ma cos’è per te la danza orientale? “Per me, la danza del ventre è la vita. La speranza. L’eccitazione. È come toccare il cielo con le mani. Come prendere il tè alla menta. È il calpestio a piedi nudi. È l’arancione e deserto di sabbia rossa. È il passeggiare tra haimas pieni di collane argento e ambra, braccialetti di rame, anelli mille forme e l'odore delle spezie di cannella, vaniglia, senape. È come il profumo di arancio, narcisi, violette. Veramente, sentire la vita”.

la danzatrice spagnola Gemma Marti
la danzatrice spagnola Gemma Marti
la danzatrice spagnola Gemma Marti durante una performance collettiva
la danzatrice spagnola Gemma Marti durante una performance collettiva
la danzatrice spagnola Gemma Marti durante una performance collettiva
a danzatrice spagnola Gemma Marti durante una performance collettiva
la danzatrice spagnola Gemma Marti durante una performance collettiva
la danzatrice spagnola Gemma Marti durante una lezione di danza del centre

giovedì 22 novembre 2012

Il fieno della terra di Walter Mossmair

Fieno in cestra del maso di Walter Mossmair © Luca Ferrari
Viaggio negli antichi mestieri di San Leonardo (Bz), dove Walter Moosmair dal Niedersteinhof, coltiva biologico a 1700 metri di altitudine. 

di Luca Ferrari

Le montagne mi circondano. Appena fuori San Leonardo (capoluogo politico ed economico della valle bolzanina, situato a 689 m s.l.m. sul lato orientale del Parco Naturale Gruppo di Tessa, al bivio tra il Passo Rombo che conduce in Austria) e il Passo Giovo che porta a Vipiteno), mi arrampico per una stradina con lo spazio giusto per un’autovettura. Il tempo di scendere e un piccolo museo all’aperto nella casetta adiacente il maso di Walter Moosmair mi dà il benvenuto. 

Ruote lignee di carro. Vecchi arnesi da lavoro contadino. Perfino un’elaborata macchina per burro e pane. In queste zone il commercio e l’intraprendenza non schiacciano le antiche tradizioni ma anzi, ne diventano l’eccellenza per raccontare storie e tramandare i segreti di quei mestieri dal sapore di bosco. Un contadino biologico fa il proprio mestiere per amore e con il cuore, non per soldi, spiega il ruspante padrone di casa. 

Fieno biologico. È questa la specialità di Walter Moosmair, un prodotto ottenuto da 127 tipi circa di differenti graminacee (un abisso rispetto alle normali 14 della media nelle altre coltivazioni) raccolte rigorosamente su prati concimati da Madre Natura, senza letame bovino né trattate con pesticidi o diserbanti. “Il fieno viene raccolto ogni due anni” spiega l’ospitale Mossmair, “quando il fiore muore e fa da concime naturale alla terra”.

vitellino al maso di Walter Mossmair © Luca Ferrari
Il frutto della propria dedizione contadina viene utilizzato nelle Terme di Merano per trattamenti di bellezza e piatti prelibati. Basta una piccola porzione messa a mollo nell'acqua calda ed ecco il bagno di fieno, dall’effetto rilassante e curativo per la pelle; un antico metodo ancor’oggi utilizzato per rinforzare il sistema immunitario e prevenire malattie da raffreddamento, disturbi reumatici e mal di schiena.

Mastro Mossmair possiede maiali, galline e sedici mucche di cui dieci esemplari da latte che viene poi portato a San Martino per preparare il formaggio. Altri contadini, in nome del progresso comune, tengono un toro da riproduzione per le varie vacche. Nelle altre stanze del maso, una più appartata viene utilizzata per l’affumicatura dei salumi e un’altra ospita invece un piccolo mulino casalingo per il pane con già trecento anni sulle spalle. “Una volta andava ad acqua” spiega Walter, “oggi con energia solare”.

Entrato nella stalla. Un muggito generale saluta il mio inatteso ingresso. Sembra di essere tornati indietro di qualche decennio. Con gli antichi fattori e i secchi per la raccolta del latte. Verso il fondo del locale, tre vitellini aspettano qualche docile carezza. Pur avendo già una mole consistente, il più piccolo ha poco più di una settimana. Il più grandicello, un mese e mezzo. Nell’avvicinarmi a uno di essi, la mamma mucca non gradisce troppo e alza il muso facendomi capire di comportarmi bene. Lei è lì e vigila attenta.

Una scala lignea mi conduce al piano di sopra dove trova posto un ampio stanzone capace di contenere sei quintali di fieno. Neanche il tempo di far adattare le mie narici e vengo travolto da reminescenze Heidiane (il celebre anime giapponese ispirato dall’omonimo romanzo scritto nel 1880 dalla scrittrice svizzera Johanna Spyri). Il fienile è ben arieggiato con generosi spifferi che entrano dalla parte settentrionale, dirimpetto le montagne. Il ricambio d’aria è fondamentale per evitare che il fieno ammuffisca. Sbircio da una delle finestre e vedo San Martino, al cospetto delle vette dolomitiche, confine naturale con l’Austria.

l'ospitalità di Walter Mossmair © Luca Ferrari
Enormi mucchi di fieno spuntano da ogni angolazione. Novello Amélie trasportato nella favolosa dimensione altoatesina, chiudo gli occhi immergendo la mano dentro il fieno. L’erba punge la pelle infreddolita. 

Una pellicola croccante moltiplica brividi. Ingigantisce a dismisura l’opulenza della memoria in un intenso viaggio di pochi attimi, al termine del quale mi vedo offrire un piccolo sacchetto di fieno con ricamato sopra un mazzo di stelle alpine.

Il mio tour si conclude davanti a una fumante e succulenta salsiccia di manzo e maiale, immersa nella pasta (spaghetti finissimi) in brodo. Un po’ reticente all’inizio vista l’ora non proprio di pranzo, un assaggio segue un altro, e così mi ritrovo a essere davvero parte integrante del maso di montagna. Alle mie spalle, la parete di piccozze, vecchi racchettoni da neve, ferri da scalata, corde e bisacce, si guadagna la platea della mia più intima destinazione.


San Leonardo (Bz), maso di Walter Mossmair © Luca Ferrari
San Leonardo (Bz), maso di Walter Mossmair © Luca Ferrari
Mucca al maso di Walter Mossmair © Luca Ferrari
Vitellino al maso di Walter Mossmair © Luca Ferrari
Maiali al maso di Walter Mossmair © Luca Ferrari
Galline al maso di Walter Mossmair © Luca Ferrari
Il fieno del maso di Walter Mossmair © Luca Ferrari
Gli attrezzi del mestiere del maso di Walter Mossmair © Luca Ferrari
Fieno in cestra del maso di Walter Mossmair © Luca Ferrari
Walter Mossmair © Luca Ferrari
Il panorama montano attorno San Leonardo © Luca Ferrari

martedì 20 novembre 2012

Al galoppo verso Malga Lazins

Plan (Bz), passeggiata a cavallo © Luca Ferrari
Viaggio in slitta a cavallo tra le prime (abbondanti) nevi altoatesine della Val Passiria. Nella candida quiete montana di Plan.

di Luca Ferrari

Luce azzurro-glaciale. Tutt’intorno è solo neve e meandri immacolati. Orma dopo orma, il sentiero ammantato di bianco si fa strada tra la nascosta vegetazione e imponenti catene montuose. Oltre le Alpi Venoste (Ötztaler Alpen), dall’altra parte dell’orizzonte c’è l’Austria. In parte congelato, il delicato gorgoglio del Pfelderer Bach (torrente Plan) allieta il mio cammino fino alla malga Lazins, nel candido cuore della Val Passiria (Bz).

Lasciata la placida Lagundo, a pochi passi da Merano, con annessa tappa nel celeberrimo Castello di Scena dove i conti Spiegelfeld hanno aperto la loro storica dimora al Mercatino di Natale, dopo aver costeggiato il fiume Passirio, mi dirigo verso Plan (1.627 m s.l.m.)

Situato nella parte posteriore della Val Passiria, nel cuore del Parco Naturale Gruppo di Tessa. La mole nevosa aumenta sempre di più, fino a ricoprire l’intero paesaggio. A Plan lo smog non è un ospite gradito. Le autovetture dei non residenti devono restare fuori dal centro abitato. Dal 2007 il paese altoatesino ha aderito al progetto “mobilità dolce”, grazie al quale i turisti vengono accompagnati alle piste da sci con due minibus e un trenino gommato.

Per chi invece volesse concedersi una momento di rilassante romanticismo in mezzo alla natura, i tredici cavalli dell’allevamento Steinerhof sono pronti per regalare l’emozione di una indimenticabile passeggiata in slitta. Un’esperienza resa ancora più magica dalla genuina atmosfera natalizia (il servizio è comunque disponibile per tutto l’anno per una modica cifra di pochi euro a testa). A Plan l’impianto di risalita formato seggiovia è già in funzione non appena la neve fa la sua comparsa.

Inizio il mio cammino. Come nella migliore tradizioni dei sentieri di montagna, le indicazioni sono sempre puntuali e precise. Non solo la destinazione, ma anche il tempo stimato di percorrenza. Ogni tanto il bosco si dirada e tornano a dettare legge i colossi montuosi. Le nuvole scendono basse, e spesso le vette ne sono quasi interamente avvolte lasciando intravedere suggestivi spicchi di bianco. Nel silenzio dell’universo boschivo irrompono poi loro. 

Due slitte trainate da uno e due cavalli. Mi riprometto di salirci al ritorno. Per ora proseguo ancora sulle mie gambe, perso nelle tante figure che la neve è in grado di creare su alberi e rocce. Un piccolo nucleo nevoso è attaccato a un scarno ramo sporgente, come se fosse un abbraccio. Su un paio di massi riesco a distinguere una figura mostruosa e addirittura la sagoma di un nativo americano (guardare per credere).

Terminata l’ora abbondante di camminata in compagnia del Plan (Pfelderer Bach), torrente che termina la sua corsa nelle cascate di Moso in Passiria, il panorama esce definitivamente dalla macchia innevata, puntando verso la malga Lazins (1782 m s.l.m.). 

Vicino al maso a conduzione familiare, un gatto delle nevi con tanto di carrozza a più posti è pronto per portare in giro i suoi gestori. Il sentiero finisce qua. Volendo si potrebbe proseguire ancora, ma solo armati di ciaspole o di sci speciali. Facendo bene attenzione a dove si mettono i “piedi”.

Rigenerato da una tonificante sambuca, ad attendermi lì fuori, quando ormai il sole si è già coricato da un pezzo, c’è Vera. Vigoroso esemplare di razza Avelignese (Haflinger, dal nome della città bolzanina di Avelengo – Hafling), dal caratteristico mantello color ocra (palomino), che insieme al suo fedele cocchiere è pronta per riportarmi al campo base. Una calda coperta mi viene gentilmente offerta per difendermi dai fendenti del freddo sempre più incalzante. È tutto inutile. L’emozione di attraversare un bosco su di una slitta è tale da ignorare i gradi sempre più vicini allo zero.

Fatto ritorno a Plan, prima di perdermi nel piacere di una insuperabile fetta di strudel locale, mi prodigo in qualche carezza alla mia mansueta traghettatrice. La sua pelle è umida. Il crine diverso dai cavalli che normalmente conosco. Mi lascia un sapore particolare sulle mani, custode immortale dei segreti di queste montagne. Lascio l’aroma equina impressa sui palmi per tutta la notte. È il brindisi migliore che mi viene in mente di regalare a questo paesaggio, e a tutta la sua gentile comunità. Zum wohc (trad. alla tua)!

Valle Lazins (Bz), Alpi Venoste (Ötztaler Alpen) © Luca Ferrari
Plan (Bz), partenza della slitta © Luca Ferrari
Valle Lazins (Bz), in mezzo alla neve © Luca Ferrari
Valle Lazins (Bz), Alpi Venoste (Ötztaler Alpen) © Luca Ferrari
Valle Lazins (Bz), in mezzo alla neve © Luca Ferrari
Valle Lazins (Bz), Pfelderer Bach – torrente Plan © Luca Ferrari
Valle Lazins (Bz), slitta con cavalli © Luca Ferrari
Valle Lazins (Bz), slitta con cavalli © Luca Ferrari
Valle Lazins (Bz), Alpi Venoste (Ötztaler Alpen) © Luca Ferrari
Valle Lazins (Bz), in mezzo alla neve © Luca Ferrari
Valle Lazins (Bz), Pfelderer Bach – torrente Plan © Luca Ferrari

Valle Lazins (Bz), slitta con cavalli presso la malga Lazins © Luca Ferrari
Valle Lazins (Bz), slitta con cavalli presso la malga Lazins © Luca Ferrari
Valle Lazins (Bz), al galoppo sulla slitta con cavalli © Luca Ferrari
Valle Lazins (Bz), al galoppo sulla slitta con cavalli © Luca Ferrari
Plan(Bz), la slitta con cavalli © Luca Ferrari