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venerdì 8 agosto 2025

Dream Team-Croazia, la storia nella Storia

Olimpiadi 1992 - Michael Jordan (USA) vs Drazen Petrovic (Croazia)

Il destino opposto di due nazioni sublimato in una (epica) partita di basket: la finale olimpica tra la neonata Croazia e il Dream Team americano, ma non solo... Era l'8 agosto 1992.

di Luca Ferrari

Una storia nella storia della Storia. Era l'estate 1992. Lo sport incantava, il pubblico applaudiva estasiato e poco distante... una porzione di mondo (Balcani) sprofondava all'inferno. I Giochi Olimpici di Barcellona 1992 sono e resteranno per sempre quelli del Dream Team americano di basket, la squadra più forte di tutti i tempi che abbia mai calcato un parquet... o in generale, che abbia partecipato a un evento sportivo. Dopo il deludente 3° posto alle Olimpiadi di Seoul 1988, per la prima volta la federazione statunitense decise di mandare i professionisti. Una congiunzione astrale che vide riunito il meglio del meglio del basket a stelle e strisce, a cominciare da quei tre: Magic Johnson, Michael Jordan e Larry Bird. Barcellona '92 fu anche la prima volta per due neonate repubbliche. La Lituania, dove militavano (tra gli altri) i fortissimi Sabonis e Marčiulionis, subì un tremendo passivo di oltre 50 punti in semifinale contro il team USA. La neonata Croazia invece, indipendente dal 1991 e già staccatasi dalla Jugoslavia in una brutale guerra fratricida ancora in corso al momento della manifestazione olimpica, affrontò il Dream Team due volte, nella fase preliminare e nella finalissima con in palio la medaglia d'oro.

Stati Uniti e Croazia, le loro gesta in quella Olimpiade sono rimaste scolpite nell'anima (sportiva) di chiunque al mondo. Anni dopo venne caricato su Youtube un videoclip celebrativo di quella sfida con sottofondo musicale di Heaven (Bryan Adams), incentrato sui canestri dei rispettivi leader: Michael Jordan (22) e il compianto Drazen Petrovic (24), scomparso in un incidente stradale l'anno successivo, in Germania. Mi sono imbattuto in quel video un po' per caso, quando il basket non significava ancora nulla nella mia vita. Sarà stata la musica un po' malinconica ma fui toccato nel profondo fin dal primo ascolto, soprattutto per ragioni extra sportive. Il video sparì dal web ma da quando una creatura di 5 anni portò la pallacanestro tra le mura domestiche facendomene innamorare, ho cominciato a cercarlo. Qualche giorno fa l'ho ritrovato, proprio a ridosso dell'anniversario di quella indimenticabile finale, disputatasi l'8 agosto 1992... e, per un'incredibile casualità, nel medesimo giorno in cui mi recherò proprio in Croazia.

Petrovic vs Jordan feat. Bryan Adams

Quel giorno, l'8 agosto 1992, non c'erano solo due squadre in campo. C'erano due mondi. Due mondi immortalati in altrettante e specifiche istantanee. Due storie agli antipodi, una all'inizio del video e una verso la fine. Da una parte, lo sguardo deciso e allo stesso tempo preoccupato del coach croato Petar Skansi (1943-2022). Dall'altra, tre tifosi americani che applaudono festanti la performance del Dream Team. Se i giovani a stelle e strisce mi hanno sempre trasmesso l'idea del futuro più sereno e l'imminente rivoluzione digitale da cui tutti saremmo stati travolti, gli occhi dell'allenatore croato mi hanno sempre scaraventato nella tristezza della guerra balcanica, ignorata dalla maggioranza della comunità internazionale, e in qualche modo più in sintonia con i pensieri di un mai sbocciato quindicenne. Da una parte c'era tutta la massima leggerezza dello sport e le luci sfavillanti dell'NBA, dall'altra parte c'era una squadra che si stava presentando al mondo, e per la quale vincere una medaglia rappresentava un grido di esistenza. In quei gloriosi giorni olimpici, laggiù, nei Balcani, si stava consumando una delle più atroci guerre scoppiate in Europa.

Bryan Adams - Drazen Petrovic, Michael Jordan, tifosi USA e coach Skansi

Ai Giochi Olimpici del 1992 ci fu un'altra partita storica oltre a Croazia-USA, ancor più emblematica dal punto di vista geopolitico. Se la Jugoslavia si stava sgretolando e avrebbe dovuto vivere tragiche stagioni di morte fino ai più devastanti epiloghi dei campi di concentramento, gli stupri etnici, l'assedio di Sarajevo e il genocidio di Srebrenica, pochi anni prima, nel 1989, il muro di Berlino era crollato, dando il via al distacco dell'Est europeo dal giogo dell'allora Unione Sovietica. Se per alcuni paesi la transizione verso libere elezioni fu pacifica, non andò tutto liscio per la Lituania, dove a Vilnius si arrivò allo scontro, con tanto di barricate, tra la popolazione e il KGB, quest'ultimo supportato dai paracadutisti inviati da Mosca che occuparono la torre televisiva locale. Ottenuta l'indipendenza, la Lituania riuscì a partecipare alle Olimpiadi grazie alla generosità dei rocker americani Grateful Dead, che consentirono gratuitamente l'utilizzo del proprio logo con la scritta Lithuania su t-shirt da mettere in commercio, e dunque autofinanziarsi il viaggio e la permanenza in Spagna.

La compagine baltica riuscì a partecipare alle Olimpiadi di Barcellona. La squadra era molto forte e come da copione (Hollywoodiano?), chi si trovò dinanzi nella sfida decisiva per l'assegnazione della medaglia di bronzo? Proprio lei, la Russia, all'epoca CSI - Comunità degli Stati Indipendenti. Epilogo degno di una fiaba: i lituani in trionfo 82-78 e la conquista del terzo gradino del podio.

la t-shirt della Lituania "benedetta" dai Grateful Dead

Alle Olimpiadi 1992 la pallacanestro cambiò per sempre. All'epoca non c'era internet, non c'era Youtube e l'unico modo per vedere le partite era guardarle in televisione, ammesso che le trasmettessero. Il basket americano era una sorta di El Dorado di cui si sapeva l'essenziale. Nonostante alcune eccellenti esclusioni per ragioni non esattamente sportive, su tutte il bi-campione NBA Isiah Thomas (Detroit Pistons), il Dream Team mostrò al Vecchio Continente il meglio del meglio del basket americano dal vivo, facendo innamorare il mondo della palla a spicchi. Molti dei campioni europei che in seguito avrebbero lasciato il segno sui campi d'oltreoceano, hanno affermato che la loro idea di basket cambiò radicalmente dopo i giochi catalani, proprio grazie all'ispirazione del Dream Team. Allo stesso tempo quella fu anche la prima manifestazione cestistica internazionale dove non partecipò la "piccola" Jugoslavia. La più forte delle nazioni europee dell'epoca poteva già vantare una medaglia d'oro olimpica (Mosca '80), due medaglie d'oro ai Mondiali (1970, 1990) e cinque titoli europei di cui le ultime due edizioni disputate, nel 1989 e nel 1991. Alle Olimpiadi del 1992 la Jugoslavia era già il passato, inghiottita in una voragine distruttiva che avrebbe lasciato indelebili cicatrici.

Una domanda sportivamente resta, e non solo. La Croazia fu l'unica squadra a tenere testa al Dream Team, andando addirittura in vantaggio +1 nella finale, e inchinandosi 85-117. Cosa sarebbe successo se fossero scesi in campo tutti i giocatori della Jugoslavia? Purtroppo e tragicamente, non lo sapremo mai... 

La nazionale jugoslava di basket in trionfo.
Al centro, Vlade Divac (serbo); al centro a dx, Drazen Petrovic (croato)... all'epoca, tutti jugoslavi

sabato 25 giugno 2022

Seattle, il viaggio che cambiò tutto

Seattle, lo Space Needle © Luca Ferrari
Ho aspettato sedici anni per andarci ma ciò che accadde lì, fu l'esatto contrario di quello che avevo sempre immaginato. Il 25 giugno 2012 partii per Seattle e tutto cambiò  per sempre. 

di Luca Ferrari

La natura stessa del viaggiare indica scoperta e cambiamento. Ogni esperienza è importante ma per il sottoscritto, come per chiunque altro, ci sono viaggi più significativi degli altri. Fino a quel momento avevo solcato vari cieli europei facendo reportage, anche in compagnia, ma dentro di me, la dimensione più intima era ancora molto personalizzata e solitaria. Poi qualcosa accadde. E il destino volle che fosse proprio in un viaggio che stavo aspettando da una vita intera. L'emblema di quel mio ermetismo si aprì a una nuova era. Lì, a Seattle, scoprii davvero il significato della condivisione, insieme alla mia compagna e due amici speciali. E lì, a Seattle, nacque "Viaggi del mondo"

Non riesco neanche a immaginare la mia vita senza che sia ispirata da quelle band formatesi nel nordovest americano. Ecco, io a 19 anni volevo andare a Seattle per loro: Nirvana, Pearl Jam, Mudhoney, Alice in Chains, Soundgarden, Mother Love Bone, Temple of the Dog. E quando misi su carta la promessa che ci sarei arrivato, riprendere quel prezioso documento e completarlo a distanza di quasi vent'ani, fu un'emozione bruciante. Mi ero sempre immaginato di andarci da solo. Vagando in compagnia di un diario, penne e parecchie cassette da ascoltare. Scrivere, scrivere e solo scrivere. Il 25 giugno 2012 sbarcai a Seattle, e una volta ottemperato il mio giuramento, le strade mi portarono a scoprire qualcosa di unico e inimmaginabile.

Fino ad allora, ogni viaggio aveva sempre avuto le stesse caratteristiche. Mi calcavo le cuffie e iniziavo a scrivere. Fino ad allora la stragrande maggioranza dei mie voli erano avvenuti in solitaria. Adesso era diverso e in quelle tante ore che mi portarono sulle coste del Pacifico, fui quasi costretto ad aprirmi a una storia collettiva. Una storia che si sarebbe rivelata più preziosa e ispirante di qualsiasi esecuzione prosaica. Atterrati all'aeroporto Sea-Tac, un amico italiano era lì ad accoglierci e accompagnarci nella sua abitazione e di sua moglie, nel quartiere di Georgetown. Ci misi poco per capire che la Seattle dell'adolescenza non esisteva più. Quella di oggi era la Seattle della consapevolezza di una nuova vita, ancor più ispirante e condivisa con l'amore e l'amicizia. Tutto iniziò così, fin dalle prime battute.

L'indomani per certi versi fu ancora più surreale. D'improvviso ero dentro quel "sogno". Il Pike Place Market, storico mercato del pesce (e non solo) di Seattle, direttamente affacciato sul golfo del Puget Sound, era dinnanzi a me. Ci entrai dentro. Visitai ogni singolo negozietto e alla fine ci concedemmo un frugale pranzetto, scoprendo con sorpresa che una volta ordinata una bibita, potevo fare il pieno della suddetta a piacimento. Ma tutto questo non lo stavo annotando su di un block notes. Come sotto dettatura di un qualche elfo immortale, nuove pagine di Storia umana si stavano imprimendo nel mio cuore. La mattina facevo il turista, ma la sera ero a tavola a condividere il mio tempo.

Seattle non fu solo un viaggio singolo, ma anche un avamposto che mi portò a (ri)scoprire vecchie storie cinematografiche, da allora diventate parte integrante dei miei ricordi più incredibili. Tutti insieme allora, andammo alla scoperta delle sorgenti della serie I segreti di Twin Peaks a North Bend, a mezz'ora da Seattle. Se ripenso a quando vidi quella serie per la prima volta, durante l'adolescenza, non mi viene in mente alcun ricordo felice. Adesso invece ero dentro quel mondo a mangiare hamburger e torta di ciliegie, sorseggiando caffè nero. Adesso il fantasma demoniaco di Bob brindava amichevole insieme a tutti noi.

Non si può dire di aver viaggiato negli Stati Uniti senza averli attraversai su strada, e così eccoci a macinare più di 180 miglia dallo stato di Washington all'Oregon, attraversando il lunghissimo Astoria-Megler Bridge, e arrivando ad Astoria, celebre scenografia naturale di tante produzioni cinematografiche, e in particolare del cult '80, I Goonies. Un viaggio a tu per tu con emozioni, confidenze fraterne e sorprese, dove un passato ingombrante si stava finalmente fracassando in nome di una vita inaspettata. Emblema di tutto questo, la straordinaria vegetazione tutt'intorno, generosa oltre modo. Come una sorta di richiamo. Una promessa indomita verso un futuro più rigoglioso... e così sarebbe stato!

Rientrati a Seattle, e fatto una piovosa tappa ad Aberdeen, città natale del cantante-chitarrista dei Nirvana, Kurt Cobain, il gps puntò questa volta a Forks, fino a qualche anno fa cittadina sconosciuta al resto del mondo, e poi diventata popolarissima grazie alla saga cinematografica di Twilight. Il caso volle che fosse la festa del 4 luglio, e assistemmo così alle tipiche parate, con protagonisti anche i nativi Quileute, citati nello stesso romanzo di Stephanie Meyer da cui vennero tratti i vari film, il tutto anticipato da una sontuosa colazione a base di giganteschi pancake con fragole e panna.

Lungo il percorso, trovammo il tempo di goderci anche i fuochi d'artificio, cucinando anche i tipici mash mellow sul fuoco in spiaggia. Lì, davanti a me c'era l'oceano che molto "IntoWildanamente" si stava aprendo a una felicità, a tratti davvero difficile da vivere e raccontare a parole sul momento. Quando fu l'ora di riprendere l'aereo, fui attraversato da un sensazione di incompletezza. Come se non avessi fatto o vissuto abbastanza. Ero certo ci sarei tornato a Seattle ma fin'ora non è mai accaduto. Finalmente ero andato a Seattle ma nulla andò com'era previsto e lo capii subito. In quel viaggio, la mia percezione del mondo attorno a me cambiò per sempre, sentendo finalmente di meritarmi di essere sopravvissuto...

Ho cominciato a scrivere questo articolo parecchi mesi fa, immaginando il giorno che sarebbero passati 10 anni esatti dal giorno della partenza per Seattle. Quel giorno è arrivato, e io l'ho appena condiviso insieme a tutti voi. 

La città di Seattle (USA) © Luca Ferrari
Il Public Market Center (Seattle) © Luca Ferrari
A zonzo per i negozietti di Seattle © Antonietta Salvatore
Il primo hamburger (di pesce) mangiato a Seattle © Luca Ferrari
Seattle, la spiaggia di Alki Beach © Luca Ferrari
North Bend (Wa), la cascata di "Twin Peaks" © Luca Ferrari
Quattro amici tra Seattle, North Bend e Oregon 
Ruby Beach (Oregon), le rocce immortalate nel film I Goonies © Luca Ferrari
Forks (Wa), parata del 4 luglio © Luca Ferrari
 I fuochi d'artificio del 4 luglio © Luca Ferrari
Gli original mash mellow (Wa) © Luca Ferrari
On the road sulle Merymere Falls (Wa) © Luca Ferrari
Seattle © Luca Ferrari
Seattle si avvicina... © Antonietta Salvatore
Seattle by night © Antonietta Salvatore

sabato 17 aprile 2021

Baia dei Porci, il trionfo di Cuba

Cuba, Baia dei Porci - l'ingresso al Museo Giron © Luca Ferrari

Viaggio al museo di Playa Giron, in quella baia dei Porci dove sessant'anni fa, il 17 aprile 1961, l'esercito di Fidel Castro scrisse un'indelebile pagina di storia di Cuba (e non solo).

di Luca Ferrari

La pulce contro Godzilla. Davide contro Golia. L'isola contro il continente. Sono passati sessant'anni da quando gli Stati Uniti provarono a rovesciare il legittimo Governo di Cuba, e ancora oggi quella indelebile pagina di Storia nel pieno della Guerra Fredda, non smette di suscitare fascino e riflessioni. Che cos'è la democrazia e che cos'è la dittatura? Laggiù, nel golfo di Cazones, sulla costa sud-occidentale dell'isola di Cuba, gli "esportatori di democrazia" divennero aggressori senza scrupoli. Questa volta però, trovarono un antagonista tenace e insuperabile. Una popolazione decisa a tenersi la propria terra, a costo di rimbracciare il fucile. E così fece.

Non si può dire di essere stati a Cuba se non si ha visitato la Baia de Porci. E per visitarla intendo prendere una macchina a noleggio, attraversare l'autopista, chiedere informazioni alla sempre cordiale popolazione, arrivando finalmente in questo porzione dell'isola dove in molti avranno il dubbio se la scelta dello sbarco non fosse un tentativo di godersi una giornata al mare invece di fare la guerra, tanta è la bellezza. È esattamente ciò che ho pensato una volta qui giunto, in una calda giornata di settembre di qualche anno fa, quando Fidel Castro era ancora vivo, e nel mio bagaglio di reporter c'erano già i sigari comprati in una piantagione di Vinales.

Natura e memoria camminano (marciano) ancora oggi fianco a fianco nella baia dei Porci. Scogli e mare caraibico da una parte, filmati d'epoca e oggetti storici con cui fu respinta l'invasione yankee dall'altra. Cuba non è un viaggio come gli altri per gran parte di noi europei (e non solo). La storia ha il sopravvento e prima di tuffarmi (e rituffarmi ancora) da speroni rocciosi, ritrovandomi poi addirittura a nuotare in una specie di piscina naturale incastonata nella roccia piena di innocue creature marine, faccio il mio ingresso con estrema voracità culturale nel museo di Playa Giron. Non c'è nessuno a parte il sottoscritto e la mia inseparabile "compagna di viaggio". 

Mezzi aerei e cingolati mi fanno subito capire verso cosa mi stia incamminando. Entrato nella struttura, pannelli esplicativi con foto d'epoca raccontano i fatti. Tutto ebbe inizio la mattina presto di lunedì 17 aprile 1961, quando millequattrocento esuli castristi, rifugiatisi negli USA al tempi della presa di potete dei Barbudos, raggiunsero la baia, a duecento km circa dalla capitale, l'Avana. L'azione ebbe la benedizione della Casa Bianca stessa, e le truppe di sbarco furono addestrate dai Servizi Segreti americani. Nonostante molti ambienti dell'esercito spingessero l'invasione diretta, il più prudente John Kennedy adottò la linea di sostenere l'insurrezione, comunque condotta da cubani e non americani. 

Castro però non era uno sprovveduto, e forte di un sostegno popolare ancora fortissimo (all'epoca), riuscì a bloccare l'invasione, piegando definitivamente il tentato colpo di stato in pochissimi giorni. Se già l'impresa della Rivolucion due anni prima aveva avuto un'aurea quasi leggendaria, lo sbarco  fallito alla baia dei Porci consacrerà in modo definitivo Fidel Castro come emblema della resistenza all'imperialismo a stelle e strisce nel resto del Continente americano. Un'esperienza questa che resterà un caso unico e sporadico, e che vedrà nel Cile di Pinochet per esempio, un esito del tutto differente e molto più tragico per i civili.

Nel mio peregrinare in questo avamposto di storia cubana, il gentile custode mi fa accomodare in una stanza dove posso visionare un filmato d'epoca. Il caldo è tanto e un ventilatore o una sgangherata aria condizionata (non ricordo bene) fa quello che può. Fa niente, quando iniziano a scorrere le immagini in bianco e nero di sessant'anni fa, le emozioni sono tante. Ciascuno di noi, almeno una volta nella vita, si è trovato di fronte un nemico più potente e avere davanti a sé la cronaca di questa impresa ci riempie di orgoglio e speranza, perché quel successo fa parte del nostro vissuto interiore, anche se non ci appartiene personalmente, come Dunkirk o lo sbarco in Normandia.

1961-2021, sessant'anni dopo il fallito rovesciamento del governo di Castro, siamo ancora qui a scrivere dei suoi eroi. Di quei protagonisti, oltre all'imperitura memoria, sono rimasti in pochissimi. Il Leader Maximo Fidel Castro se n'è andato pochi anni or sono, l'eroe argentino Che Guevara fu giustiziato in Bolivia dai Generali. Di quel pugno di rivoluzionari che partirono dall'assalto alla Caserma Moncada fondando il Movimento del 26 Luglio, rovesciando poi la dittatura di Batista e infine respingendo le mire espansionistiche degli Stati Uniti, rimane Raul Castro, ex-presidente e fratello di Fidel, e qualche altro storico guerrigliero. 

Ci sono nazioni che sono state segnate in modo indelebile dall'occupazione straniera. Cuba è una di queste. L'Iran è un'altra, e a detta di moltissimi esperti internazionali, è più tollerabile una dittatura interna che non una mano occupante imposta da altri. L'evoluzione della politica cubana post-rivoluzione, purtroppo, è nota a tutti, sebbene debba essere contestualizzata con l'ingombrante presenza di un nemico situato a poche miglia dalla propria costa, che ancora oggi vergognosamente impone un embargo, impedendo di svolgere regolari attività commerciali con moltissime nazioni. Come se la minuscola Cuba fosse una minaccia per il "mondo libero".

La storia di Cuba è la sua rivoluzione. La storia dei Cuba passa per la baia dei Porci e quell'epico 17 aprile 1961, quando una piccola isoletta dimostrò a tutti che neanche la più grande potenza del mondo poteva decidere il loro destino. Sessant'anni dopo siamo ancora qui, a ricordare quella impresa. Fidel Castro e la sua Cuba si ribellarono a un destino che sembrava scritto e ancora oggi, pagano un prezzo altissimo per essersi opposti. Per molti popoli non è stato così. Molte nazioni sono state piegate e assoggettate a logiche economiche, ed è sempre stato così fin dalla notte dei tempi. A Cuba, in quei caldi giorni all'inizio di un decennio che avrebbe cambiato il mondo, andò diversamente. Noi lo sappiamo bene e ci piace ricordarlo ancora. 

Cuba, Baia dei Porci © Luca Ferrari
Cuba, Baia dei Porci - il Museo Giron © Luca Ferrari
Cuba, Baia dei Porci - pannelli esplicativi al Museo Giron © Luca Ferrari
Cuba, Baia dei Porci - la stampa locale al Museo Giron © Luca Ferrari
Cuba, Baia dei Porci - sale del Museo Giron © Luca Ferrari
Cuba, Baia dei Porci - memorabilia del Museo Giron © Luca Ferrari
Museo Giron (Baia dei Porci, Cuba) - filmato d'epoca © Luca Ferrari
Museo Giron (Baia dei Porci, Cuba) - la sala per proiezioni © Luca Ferrari
Museo Giron (Baia dei Porci, Cuba) - esterno © Luca Ferrari
Cuba, Baia dei Porci © Luca Ferrari

giovedì 25 giugno 2020

L'immenso Woodland Park Zoo (USA)

Un orso nel Woodland Park Zoo di Seattle © Luca Ferrari
Alla scoperta del Woodland Park Zoo, l'imponente giardino zoologico di Seattle (Wa, USA). Oltre novanta ettari nella zona nord-occidentale della capitale dello stato di Washington.

di Luca Ferrari

Continua il viaggio nella città smeraldo (Emerald City) dello stato di Washington (USA), Seattle. A poca distanza dal placido Green Lake c’è il Woodland Park Zoo, al cui interno si trova il celebre giardino zoologico situato attorno a Phinney Ridge, quartiere nord. A seguire le indicazioni non è un’impresa impossibile anche facendola a piedi. Non sono troppo di questo avviso per cui mi avventuro un po’ alla cieca finendo per chiedere indicazione a ogni possibile abitante della zona anche se in realtà incontro più scolaresche per un sano picnic all’aperto. Prima ancora di vedere il parcheggio a ridosso dell’ingresso, capisco di essere arrivato da un vociare bambinesco sempre più fragoroso.

Sono dentro. Un’area di 92 acri (37 ettari) dove hanno trovato casa 300 specie circa, per un numero complessivo di oltre mille esemplari animali, settemila alberi e oltre cinquantamila tra piante e simili. Ognuno come sempre può girarselo come gli pare, seguendo a proprio piacimento gli itinerari.A darmi il benvenuto è il rosa dei fenicotteri, passando poi alle ampie vasche con i pinguini che inevitabilmente riportano alla memoria alcuni dei protagonisti animati della saga del lungometraggio Madagascar. Leopardi, elefanti, il drago di Komodo, civette e aquile, lupi bianchi e anche un gigantesco orso, che per la gioia dei presenti si concede un bagno proprio davanti al vetro della vasca.

Dal cinema poetico di La mia vita è uno zoo (2012, di Cameron Crowe con Matt Damon, Elle Fanning e Scarlet Johansson) alla vita autentica dentro e fuori i recinti. In una sorta di passaggio di testimone, chiudo gli occhi per indovinare a quale ospite dello Woodland Park Zoo mi stia avvicinando, dal verso che sento. Una costante carezza familiare di aromi naturali mi accompagna delicatamente all’uscita, ma non è ancora tempo di rientrare al cospetto dello Space Needle, lì, sul Puget Sound. La visita al giardino botanico mi aspetta. E l’immagine di una corolla rossa come il fuoco più dolce, si fa sempre più vicino ai miei occhi. Direi quasi, a portata di battito incessante.

L'ingresso nel Woodland Park Zoo di Seattle © Luca Ferrari
Un pinguino nel Woodland Park Zoo di Seattle © Luca Ferrari
Un orso nel Woodland Park Zoo di Seattle © Luca Ferrari
Un drago di Komodo nel Woodland Park Zoo di Seattle © Luca Ferrari
Un elefante nel Woodland Park Zoo di Seattle © Luca Ferrari
Dei lupi nel Woodland Park Zoo di Seattle © Luca Ferrari
Il giardino botanico nel Woodland Park Zoo di Seattle © Luca Ferrari

venerdì 17 aprile 2020

Forks, i nativi Quileute di Twilight

Forks, i nativi Quileute © Luca Ferrari
Viaggio a Forks (Wa), la cittadina americana dove Stephenie Meyer vi ambientò la teen-serie Twilight. A passeggio con invisibili vampiri e i nativi "licantropeschi" Quileute.

di Luca Ferrari

Foresta. Strane presenze. Creature umane e soprannaturali. Ho attraversato l'Oceano Atlantico per atterrare nella mia tanto agognata Seattle, nel nordovest degli Stati Uniti. Il golfo del Puget Sound, lo Space Needle, il Pike Place Market, tutto visto. Mi sono spinto perfino nel vicino comune di North Bend, dove il regista David Lynch ambientò la serie cult Twin Peaks. Non era abbastanza. Non poteva essere abbastanza. Poco distante dalla cosiddetta Città-Smeraldo (appellaivo più che meritato, ndr), c'è un'altra piccola località balzata alle cronache per il suoi trascorsi letterario-cinematografici. Il suo nome è Forks (Wa), lì dove la scrittrice Stephenie Meyer diede vita al teen-drama Twilight.  

Il viaggio crepuscolare di Bella (Kristen Stewart), Edward (Robert Pattinson) e Jacob (Taylor Lautner) adesso è parte di me. Sono dentro quella stessa sceneggiatura naturale che mi portò davanti al grande schermo a più riprese (più per il paesaggio per l'appunto che per la storia in sé, ndr). Grazie a eloquenti cartelli e avvisi, Forks è una placida cittadina con richiami costanti a vampiri e licantropi. Poco fuori dal centro abitato si può perfino verificare il proprio stato vampiresco con un divertente test. E se poi si dovesse essere davvero fortunati, si possono fare anche degli incredibili incontri. A me è accaduto, e non per scherzo.

Gironzolando per le stradine, ancora non immaginavo che di lì a poco mi sarei trovato dinnanzi a qualcosa di così "letterariamente" realistico. Appurata l’assenza di canini aguzzi (però era giorno, e chissà se il rosso delle fragole di tre superbi pancake non celasse qualche singolare ingrediente di analoga colorazione), le strade si fecero sempre più chiassose. Il traffico bloccato. Una parata. E che parata, parliamo del 4 luglio. Dopo i reduci di guerra, studenti e bambini, ecco sfilare una tipica canoa trainata da un mezzo a ruote. A bordo, i rappresentanti della tribù dei nativi americani Quileute (lo capisco dalla scritta posta nella parte inferiore del mezzo). Il nome lo ammetto, mi dice qualcosa.

Lo avevo già sentito. Ma si, Jacob Black della saga di Twilight. Oh my god! Possibile che di fronte a me ci siano proprio loro, quelle creature che a piacimento assumono sembianze lupine? Due giovani ragazze native (lupine?) mi vedono con lo sguardo mezzo incredulo e cordiali puntano il dito nella mia direzione, salutandomi simpaticamente. Meglio non dire loro che ho sempre parteggiato per i vampiri Cullen, chissà la reazione. E se in quel gesto ci fosse stato ben altro, magari un rituale magico? A presto allora, forse un giorno, da qualche parte nei misteriosi boschi di Forks, i nostri sentieri si rincontreranno.

L'ingresso nella cittadina di Forks (Wa, USA) © Luca Ferrari
L'ingresso nella cittadina di Forks (Wa, USA) © Luca Ferrari
L'ingresso nella cittadina di Forks (Wa, USA) © Luca Ferrari
A Forks (Wa, USA) si può misurare il livello vampiresco © Luca Ferrari
I nativi Quileute sfilano per le strade di Forks (Wa, USA) © Luca Ferrari
I nativi Quileute sfilano per le strade di Forks (Wa, USA) © Luca Ferrari
L'oscurità avvolge la cittadina di Forks (Wa, USA) © Luca Ferrari

mercoledì 21 novembre 2018

Guglielmo Botter, l'arte urbana della china

Pittsburgh, Fort Pitt Bridge Pitt – disegno a china di © Guglielmo Botter
L'arte a china dell'artista trevigiano Guglielmo Botter, specializzato nei paesaggi urbani degli Stati Uniti. Un viaggio iniziato nella sua amata Pittsburgh... "verso la fine del XIX secolo".

di Luca Ferrari

Un tocco. Uno schizzo. Un appostamento. Una prospettiva ancora inedita. L’uomo è lì. L’artista è dentro. La mutazione è già avvenuta. Adesso è un tutt’uno costante e sempre proiettato verso nuovi orizzonti urbani. L’umanità è intrisa di memoria. I ricordi echeggiano nel nuovo tratto. Oggi le strade, i parcheggi. Domani i canyon, i canali, le piastrelle dei ponti. Oggi è domani. Fari, gallerie, archi di trionfo. Un tratteggio instancabile. Un artista che ha voglia di raccontare ciò che fa. Lui disegna a china. Guglielmo Botter (Treviso ’66), raffigura paesaggi urbani con una semplice matita a china.

L’arte chiama l’arte. L’arte ispira l’arte. È successo esattamente questo, e nel modo più semplice possibile. Da un articolo sul mondo dell’Università Internazionale dell’Arte di Venezia a un viaggio umano a tu per tu con la propria chiave di espressione. Lì nel mezzo, un disegnatore a china. Ogni anno fa fagotto e abbandona la culla del Tiramisù destinazione Pittsburgh (Pennsylvania). Il suo nome è Guglielmo Botter. Non è un artista nel senso più banale e bohémien del termine. Oltreoceano ci sono metà delle sue radici. Accanto a lui, nei suoi costanti viaggi negli States, c’è sempre la sua dolce famiglia.

Mail dopo email, Guglielmo mi racconta il suo mondo e la sua avvincente storia. Da adolescente vince un concorso nazionale sbaragliando la concorrenza oltre 350mila concorrenti. Era il 30 novembre 1980. Alla XXII giornata Nazionale del Francobollo la sua opera che raffigura piazza Pola a Treviso sale sul gradino più alto del podio, facendo inoltre riprodurre da Poste Italiane  la città veneta su di un francobollo per la prima volta. Di lì in poi, tante esperienze, inclusa laurea in architettura e anche l’insegnamento al già citato Istituto dove ha luogo un corso triennale di Tecnico del Restauro di Beni Culturali.

Impossibile parlare di Guglielmo senza aprire una parentesi sulla sua famiglia. Nelle sue vene c’è molta arte. Le tre generazioni paterne prima di lui hanno lasciato il segno nel campo del restauro e del mantenimento degli affreschi nella città di Treviso, e non solo. Pittrice anche la mamma, nata e cresciuta negli Stati Uniti, a Pittsburgh, figlia di immigrati arrivati decenni prima, e poi tornata nel Bel paese, a Venezia, dove andò a studiare all’Accademia delle Belle Arti dove incontrò Guglielmo detto “Memi”. E fu amore. E fu matrimonio. E fu… Guglielmo.

Ogni artista ha qualche opera nel cuore. Tra le proprie creazioni, anche Guglielmo ha le sue preferenze, o meglio un sincero attaccamento. “Tutti i ponti di Pittsburgh offrono un differente approccio alla città. Di questi, quello del Fort Pitt Bridge Pitt è fantastico” analizza, “Provo a immaginare l'emozione di mia madre, allora ventitreenne, quando attraversò questo ponte, appena terminato nel giugno del 1959 a bordo della sua amata Dodge. Un disegno che ho rifiutato di cedere più volte perché mi lega profondamente al ricordo di mia madre che a Pittsburgh visse la sua gioventù fino al 1964, anno in cui venne in Italia a sposare papà”.

Si dice spesso che gli artisti non siano profeti in patria. Non è il caso di Guglielmo Botter. Oltre al già citato francobollo che gli ha reso un riconoscimento ufficiale nella piazza stessa della città veneta, un altro lavoro molto importante per la carriera, e la vita stessa dell’artista è la pianta prospettica della sua città natale. “Era dal primo decennio del 1800 che nessuno aveva più affrontato questo complesso tema a Treviso” racconta, “Quell'anno (1997), io e la mia fidanzata Paola avevamo deciso di sposarci.

Tra lavoro, preparativi per il grande giorno, trovai anche il tempo per iniziare un progetto che per troppo tempo avevo tenuto nel cassetto. Iniziai a disegnare la mia città dall'alto al modo delle antiche viste a volo d'uccello. L'impresa non fu facile perché in quegli anni il web era ancora agli albori e Google non esisteva. Ci vollero quasi quattro mesi per terminare l'opera basata su ricognizioni in loco, schizzi e foto (non digitali) scattate dall'alto della torre di piazza e dei campanili delle numerose chiese cittadine. Un’opera che nel tempo troverà sicuramente una giusta collocazione nell'iconografia della città di Treviso”.

Concludo col principio. Concludo questo excursus “microfonato” dell’artista con quello che a detta dello stesso protagonista, fu “Il primo disegno di una lunga serie ormai arrivata a superare il centinaio di viste della città. Quello che per me è e rimarrà il simbolo della mia esperienza americana”. Trattasi dell’opera “Downtown Pittsburgh: view from Heinz Lofts parking lot”, pubblicato nella prima pagina del Pittsburgh Post Gazette nonché  pluripremiato negli anni a seguire ottenendo premi e riconoscimenti in vari concorsi internazionali. Torno al principio. L'arte chiamava l'arte, scrissi. Adesso è tempo che l'arte ispiri altra arte...


C’È CHI TRAMANDA UN ROMBO TERRENO

Ho raffigurato un’affermazione
e ne sono stato risucchiato
dentro… La scarsa familiarità
con i messaggi di ricambio
mi ha sempre impedito
di restare sotto i grattacieli
troppo a lungo e le strade, quelle poi,
non mi hanno mai convinto
senza una fine dichiarata… Ci
vogliamo fermare
un momento e assecondare
questa monumentale
energia? Nel tuo immaginare
un passaggio
dai connotati materni
hai innescato
barchette di carte e bauli
pieni di scarpe… Qualcuno presto
arriverà per non farvi
più ritorno ma questo è solo
un pensiero ingigantito dalle vertigini
che ancora non mi trascurano
quando un nuovo istante
si rasserena dentro l'abbraccio cordiale
di una nuova città
C’è chi nasce, chi naviga… e chi narra
Sedersi a prendere appunti
al centro
di una strada non pedonale
sarebbe troppo facile
per attirare su di sé
la benevolenza delle stelle turchine
… dimenticavo,
oggi non ho voglia
di spiegarvi l’arcobaleno, oggi
sono impaziente
all’idea di restare muto
mentre una pioggia
di segni monocromatici
si spartiscono
il risultato della sua ispirazione.
Ancora un momento
e il colore sarà dannatamente 
ribollito… Adesso si, ci siamo presentati 
a dovere
(Venezia, 21 Novembre ’18)

Riding with the King by Eric Clapton & B.B. King


Pianta prospettica di Treviso – disegno a china di © Guglielmo Botter
Downtown Pittsburgh: view from Heinz Lofts parking lot -  – disegno a china di © Guglielmo Botter
Guglielmo Botter posa insieme ad alcune delle sue opere
Harrisburg (PA), South 2nd Street – disegno a china di © Guglielmo Botter